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Giuseppe Genna, Reality. Cosa è successo.
Un tentativo di lettura “teologica”
di Andrea Ponso

8 settembre 2020


In questa non certo esaustiva riflessione mi propongo di affrontare il testo di Genna (Reality. Cosa è successo, Rizzoli, Milano 2020) da una prospettiva che, ai più, potrà sembrare poco pertinente, se non del tutto errata: quella teologica e spirituale. Siamo abituati a pensare la teologia come un dispositivo sistematico, capace di estrarre dalla rivelazione e dalle Scritture, con l’aiuto delle altre scienze umane, un impianto razionale che dia ragione dell’atto di fede.
Eppure, se cerchiamo di comprendere cosa si intende per teologia nei padri antichi, ci accorgiamo che è quasi l’esatto contrario: essa non è il “sapere” e non si rivolge a Dio come un “soggetto presupposto sapere”, direbbe Lacan, né si pone essa stessa in questa posizione, esercitandosi piuttosto come un processo concretissimo, pratico-patico ed ergo-emotivo, di immersione partecipativa nel Mistero. In questo senso, potremmo noi dire oggi, siamo più vicini alla praxis che non alla dualistica divisione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Proprio per questo motivo la teologia, così intesa, è sempre stata vicina al poietico, alla pluralità delle forme estetico-narrative che la stessa Scrittura ci propone, non a caso, come rivelazione nella parola: non un insieme di dottrine e di concetti ma una narrazione ad altissimo grado poetico, non riassumibile nemmeno per il dogma cristiano in un “catechismo” - parola di Dio, infatti, lo possiamo dire solo dopo la lettura del testo biblico, e mai dopo quella dello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica.

La scrittura di Genna, soprattutto in questo suo ultimo lavoro, è sicuramente e potentemente immersiva nell’indagare il trauma incarnato della pandemia con tutte le sue contraddizioni, e tende a toccare, nel far vedere, la carne residua di una incarnazione in via di sparizione, rifiutata sia nelle presunte spiritualità disincarnate e angelico-analgesiche, sia nell’efficentismo dei corpi agonistici e tecnici, come è chiaro nelle pagine dedicate ai runners - in un processo che potremmo dire kenotico.
Ciò che ne esce è qualcosa che non ci lascia uscire dal sentire: un sentire a volte barrato, difficile e asintotico, ripetitivo, percussivo e disturbante come gli effetti stessi del trauma. È una parola scarna nel suo lasciarsi devastare, disarmata per eccesso di sentire e per tecnica e dono d’ascolto sismografico. E sarebbe interessante indagarne a fondo proprio il ritmo, e anche il procedere per assonanze e consonanze, in una musica che non si piega mai a farsi del tutto significato ma che, in un procedimento di tipo parabolico, proprio come accade nei vangeli, non può essere vissuta e percepita se non vi si entra personalmente e singolarmente, se non ci si lascia “abbindolare”, rimanendo sospesi al suo desiderio inesausto e mai consolato da un “oggetto”.
Il movimento è incessante e disperato, di contro alla “massima sicurezza” del carcere immunitario, volto a preservare una pura biologia senza attributi, immobile e sepolcrale, disperata, abbandonata o incattivita. La lingua diventa un sensore che procede patendo ogni scossa emotiva, ogni azione e sua mancanza, come accade al nostro sistema nervoso autonomo: portare alla luce questa sismografia vagale, al di là dei meccanismi di auto-sicurezza che ci derivano dai più remoti recessi della filogenesi, è già un accesso al Reale: la recente visione polivagale ci insegna che i più antichi meccanismi difensivi ci derivano da animali che non hanno bisogno di socialità, i serpenti ad esempio, che possono fingersi morti rimanendo immobili e abbassando fino al limite estremo i parametri di vita: per noi è il collasso, lo svenimento, la bradicardia prossima alla morte e che può causare la morte come eccesso di difesa: e cosa stiamo vivendo oggi se non questo panico, se non questo svenimento continuo, questo collasso di tutto? Ma nei mammiferi e poi negli umani la socialità ha messo in secondo piano tale meccanismo, proprio perché il bisogno di relazione e di socialità è necessario - e oggi sembra riemergere anche dal punto di vista medico-psicologico.
Tra questi due limiti sembra inserirsi il sismografo di Genna, tra il collasso e la relazione, tra il freddo del rettile e il calore di una carne terminale in attesa di essere liberata dall’essere oggetto di mercato o di mera dissoluzione - una volta che si sono accartocciate su se stesse tutte le rappresentazioni, ogni tipo di Reality, compreso quello dello scrivente, che ne è consapevole e, in questo, si abbandona alla dispersione e a quella vertigine-virus in una speranza disperata che non abita un passato mitico o un futuro ipotetico e ipotecato, ma l’atto presente della scrittura come immersione in quello che è, in quello che continuamente diventa.

Si tratta di una vera e propria discesa agli inferi, come ancora oggi è celebrata e vissuta nella tradizione ortodossa; solo che, nel nostro caso, tale discesa è una risalita alla superficie, al non indagato del sembiante, un blocco positivo ad ogni energizzante e assolutorio rimando significante, che la scrittura di Genna non rifiuta ma abbraccia per poterlo intonare in una declinazione diversa, in una diversa torsione - e in questo l’estetica non si fa più fuga anestetica, né per lo scrittore né per il lettore.
È un disperato movimento pasquale, se quest’ultimo termine significa appunto passaggio, movimento continuo che non scansa i sepolcri e ciò che continuamente muore. E così, anche solo laicamente, Genna lo porta alla luce. Nella tradizione siriaca troviamo queste parole, riferite al Cristo disceso agli inferi:
Oggi il sole di giustizia si è manifestato non venendo dal cielo, ma dagli inferi. Infatti, un qualcosa di inatteso è accaduto: gli inferi sono diventati immagine dell’oriente e il sole di giustizia si è levato di là.
Naturalmente, e direi anche religiosamente, Genna non si pone in questa modalità salvifica, ma sembra invocarla disperatamente. Diceva Isacco il Siro che i sapienti “aspirano la vita da dentro la morte” - e questo “aspirare” è anche il respiro stento e strozzato degli intubati, che si mischia a chi non ha pace ma non cede all’asfissia, fino a perdere i polmoni in quel continuum anche linguistico che apre il libro e lo percorre: In girum imus nocte et consumimur igni.
Lo percorre fino ad un punto teologicamente rilevante, anche se tutta la scrittura sembra rispondere ad una volontà di incarnazione, nello stesso stile, che non teme la carne tenera, la sua debolezza e inermità, il suo essere squassata e potenzialmente fantasmatizzata: e questo punto, che non è un punto ma finalmente un vuoto, è l’apparizione del Vescovo di Roma in piazza S. Pietro - qualcosa che mi ha ricordato il Piero della Francesca della Pala di Brera, ma per motivi opposti alla poetica dell’aretino. La perfezione di una bellezza quasi immobilizzata, con quell’uovo di struzzo, simbolo di pienezza, perfettamente chiuso in se stesso, ab-soluto, e capace di ordinare l’intera struttura, sembra esplodere, nella narrazione dell’apparizione di Papa Francesco, andando in mille pezzi con tutto il mondo: quell’uovo bianco conteneva il vuoto, è il Pontefice stesso, che si riduce a uomo solo e disperso in tutto quel vuoto; è forse solo una piccola traccia del guscio -finalmente una particola, cioè un pezzo dell’intero e non il cerchio perfetto e teologicamente errato delle ostie che si ricevono nelle chiese - che, per questo, si fa prossima a tutti nel silenzio e in quei movimenti lentissimi e sciancati, simbolo certo di estrema debolezza, ma anche della lotta con l’angelo di Giacobbe che lo colpisce all’articolazione del femore, al nervo sciatico, rendendolo zoppicante come balbuziente, “uomo tardo di lingua”, era Mosè. La fede abdica ad ogni linearità, il suo ritmo è imprevedibile e faticoso, ma può innalzare proprio nel momento del dolore e del male.
Francesco incede così, in un vuoto incredibile che finalmente viene alla luce come un respiro profondissimo, silenzioso e sospeso, capace di liberarsi da tutto portando tutti con sé. Come scrive Genna, “dimissionare se stesso, la cristianità, la Chiesa, la storia”: abdicare, quindi, da ogni rappresentazione, liberarsi con una fatica che deforma ogni cosa e ridona una speranza di forma che non sia quella conosciuta fino ad ora; abdicare all’autorità e all’autorialità per farsi prossimi ed essere così davvero autorevoli nel senso anche etimologico più profondo del termine: possibilità di far nascere e crescere,
solo e vulnerabile, inarrivabile e vicinissimo, privo di scena e mirabile, nelle dimissioni del sistema e dell’umanità avanza [...] Ogni volta che andrai tra gli uomini ne ritornerai meno uomo di prima, più dio di prima...
“claudicare” e “abdicare” sono, anche dal punto di vista sonoro, un continuum arido e scosceso, sono la linea della scrittura e della vita che possiamo ancora vivere; sono le ferite inflitte dal vuoto che fanno abdicare e claudicare, è qualcosa che manca, un meno, una disfunzione, che ci riporta sulla via che non è mai stata “retta”. Ed è il corpo a corpo che ridona al mondo finalmente tale vuoto, mostrando ciò che sfugge, cioè che è pasquale e quindi passa, anche tra le ferite, anche nelle fenditure dei cadaveri e delle merci: passa, dopo essere stato fiato, fianco a fianco con i morti, come Cristo agli inferi.
E finalmente non siamo più solamente spettatori, non siamo più passivi ricevitori non visti da immagini che non ci ri-guardano mai davvero:
Pensavamo di vederlo e invece era lui che ci guardava. Guardandoci, era vicino, ci toccava, forse. Assistevamo da spettatori e il primo spettatore era lui. La cosa vista guardava. L’immagine ci osservava. Il percepito di percepiva. Lo spettacolo era terminato, in un collasso, in un risucchio verso un luogo profondo e altissimo, privo di immagine ma non di luce, privo di parola ma non di mistero e senso. L’intera civiltà dello spettacolo terminava qui, tra le parole arrotate di quest’uomo, non più semplice uomo, con il suo accento sudamericano e la veste fossile che si accendeva, un bianco inimmaginabile, attivato, non immagine ma colore - un colore che superava lo spettro, non più cromatico, stagliato ovunque la tenebra avesse avanzato le proprie ragioni. Padre di chiunque, figlio di uno solo, spirito che mediante la luce riempie la tenebra, riempie tutto ed è vuoto.
Tutto questo finalmente e senza scampo, anche solo per un attimo, ci riguarda, “finalmente” anche nel senso di “terminale”, e ricrea una relazione che non è come quella scatenata dal virus che ogni cosa può abitare e disabitare fino alla morte, ma che è comunque virale, e che contiene anche la malattia stessa e la fine: tutto questo ci riguarda perché questo è tutto: al posto del nome, pronome dimostrativo, imprendibile eppure qui. Un testo liturgico del messale mozarabico così recita:
Umiliò le realtà divine,
per poter innalzare quelle terrestri
[...]
perché noi non perdessimo il cielo,
egli patì l’inferno.
La morte afferrò
colui che non poté trattenere;
inorgoglita del successo,
ma depredata del bottino.
Esultò nel catturarlo,
ma fu distrutta nella vittoria.
[...]
e mentre ambiva a ciò che non le spettava,
perse ciò che aveva acquisito.
E al fondo di tutto questo cosa c’è? C’è l’umanissima pietà, ma una pietà che non può più darsi nelle sue semplificazioni, nella sua presunta purezza immediata - se mai a noi umani è stata concessa questa immediatezza; una pietà che confina con la presa in carico della crudeltà - una crudeltà del sentire e del vedere che ci imponiamo o non ci imponiamo per niente, ben coperti dalle rappresentazioni, già morte crisalidi, già sepolcri imbiancati, già e da sempre. Pietà e crudeltà che si incontrano tremanti nello stile incarnato della scrittura - che altrimenti non sarebbe niente la carne tenera e martoriata della pietà: sarebbe come il catechismo in confronto alle Scritture.
Lucian Freud, Self portrait, 2004.



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